Don Marco Renda, Arciprete della Chiesa Madre di Marsala, presenta il video di Easy Vision

La storia della Chiesa Madre di Marsala

La Chiesa Madre di Marsala, costruita nel 1176, è dedicata a San Tommaso Becket. Affacciata su Piazza della Repubblica, è la più grande chiesa di Marsala.

Un luogo di grande spiritualità.
"

della Dr.ssa Maria Grazia Griffo

Ripercorrendo le varie fasi della storia della Chiesa Madre, la prima considerazione che viene da fare è che il monumento riflette, in modo emblematico, la storia della città in cui è sorto. E’ peculiare del resto dei luoghi sacri, sin dall’antichità, sintetizzare ed esprimere, nel proprio antico cuore di pietra, il sentimento religioso, le aspirazioni, le condizioni sociali, economiche e politiche degli uomini che li hanno edificati, custoditi, valorizzati e, soprattutto, amati.

La storia della Chiesa Madre di Marsala inizia in epoca normanna. Sappiamo da Al Idris, geografo arabo al servizio di re Ruggero, che "Marsala, un tempo distrutta e abbandonata, fu cinta di mura tanto che essa si ripopolò e si munì di mercati e di botteghe". Ben più importante dal punto di vista commerciale è la città di Mazara, definita dallo stesso Idris, "splendida ed eccelsa", tant’è che nel 1093 Mazara, e non Marsala, fu eletta sede della diocesi.

A quel tempo la basilica paleocristiana della fiorente comunità lilibetana doveva essere in rovina, come gran parte della città, a causa delle scorrerie arabe. E’ assai probabile che questo primo edificio di culto sorgesse sullo stesso sito del successivo duomo normanno, come attesterebbe il rinvenimento, durante i lavori di ricostruzione seguiti al crollo della cupola del 1893, di alcune strutture di un edificio ad una navata e di tracce di mosaici sotto le fondazioni della zona presbiteriale, e come confermerebbe l’uso dei Normanni di ricostruire chiese e conventi non mutandone l’antica ubicazione.

Secondo la tradizione, il duomo normanno fu eretto intorno al 1176, epoca in cui reggeva la diocesi della Val di Mazara il marsalese Tutino che, per compensare i propri cittadini della perdita della sede vescovile, elevò la Chiesa di Marsala alla dignità di arcipretura. Esso sorgeva con le fronte principale sulla Piazza Maggio, dove oggi è la porta laterale, e si sviluppava in senso ortogonale alla chiesa attuale per 25 metri, occupando più della metà dell’attuale via Garibaldi. Sembra che la pianta fosse a tre navate absidate con cappelle laterali, preceduta da un portico a colonne e da un campanile.

La cattedrale fu dedicata al santo inglese Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, canonizzato appena qualche anno prima. Questi godette di una grande fama durante tutto il Medioevo e la sua tomba divenne presto meta di pellegrinaggi mentre, divenuto simbolo di libertà e dignità umana oltre che di fedeltà a Cristo, egli veniva rappresentato con grande ricchezza iconografica, soprattutto per l’episodio del martirio. Anche nella Chiesa Madre di Marsala, ricostruita intorno alla metà del XVII secolo, troverà posto nell’abside una tela raffigurante l’uccisione del Santo.

La vita di Tommaso Becket – è stato scritto – non si comprende se non alla fine, prendendo luce dal martirio a causa della libertà della Chiesa per il quale fu venerato come Santo. "Gran segreto è la vita, e nol comprende/che l’ora estrema" si potrebbe dire di questa singolare figura, come dell’Adelchi manzoniano.

Dopo una brillante carriera politica culminata nella carica di cancelliere d’Inghilterra, che detenne per sette anni, stringendo amicizia con il re Enrico II ed appoggiandone gli interessi contro quelli della Chiesa, venne eletto arcivescovo di Canterbury. Com’è stato sottolineato dai suoi contemporanei, con l’elezione episcopale avvenne in lui un repentino mutamento, segnato da un’austera condotta di vita ma non da una profonda conversione. Ostinato ed orgoglioso, si oppose fermamente al re che rivendicava alle corti secolari il diritto di giudicare gli ecclesiastici, e rigettò le Costituzioni di Clarendon che codificavano dei diritti regali, divenuti consuetudinari durante i regni precedenti. Dopo una lunga lotta tra il potere regale e quello ecclesiastico, l’arcivescovo veniva costretto all’esilio e si rifugiava in Francia. Ritornato nella propria diocesi dopo sette anni, si rese presto conto che la riconciliazione con il re era solo apparente. Nuovamente ne provocava le ire scomunicando due vescovi, ma quest’ultimo atto gli costò la vita.

Quattro cavalieri della corte di Enrico, convinti di eseguire la volontà del sovrano liberandolo dall’incomodo e turbolento prelato, uccisero l’arcivescovo nella sua cattedrale la sera del 29 dicembre 1170.

Il santo divenne subito assai popolare in Sicilia per gli stretti rapporti tra l’Inghilterra e i dominatori normanni, i quali, proprio sotto i regni dei due Guglielmi, avevano rafforzato l’elemento nordico dell’amministrazione ed inserito dei prelati inglesi tra i più alti ranghi ecclesiastici. Nel 1177 Giovanna Plantageneta, figlia di Enrico II d’Inghilterra, andava in sposa a Guglielmo II e si dedicava alla promozione del culto in Sicilia: infatti poco più tardi la moschea di Catania veniva trasformata in una chiesa dedicata a San Tommaso, mentre lo stesso martire inglese veniva raffigurato nei mosaici del Duomo di Monreale, fondato dal sovrano tra il 1172 e il 1176.

Assai probabilmente, quindi, la consacrazione della Chiesa Madre va collocata tra il 1173, anno della canonizzazione del Santo, e il 1189, fine del regno di Guglielmo II e di Giovanna d’Inghilterra; e si comprende bene che essa non è da intendersi come un fatto straordinario, né è necessario, per giustificarla, ricorrere alla nota tradizione, tramandata dal Pirri, del fortunoso naufragio, sulle spiagge di Marsala, di una nave con un carico di colonne di marmo di Corinto destinate ad una chiesa inglese da dedicare al Santo.

A partire dal regno di Alfonso il Magnanimo, intorno alla metà del XV secolo, Marsala partecipa al clima di rinnovamento culturale proprio dell’Umanesimo e al diffondersi, nell’Isola, del linguaggio artistico rinascimentale, seppure mediato attraverso forme e modi eterogenei, retaggio di civiltà artistiche del passato. E se in campo letterario essa esprime in modo personale il rinato amore per i classici con gli umanisti Tommaso Schifaldo, Priamo Capozio e Vincenzo Colocasio, nel campo delle arti figurative vive di riflesso la cultura dei marmorari settentrionali, attivi a Palermo sin dalla metà del ’400.

Così nonostante le difficili condizioni di vita in cui la cittadinanza versava in quel periodo, sia a causa dei pesanti tributi imposti dal governo spagnolo che delle continue vessazioni degli eserciti di stanza e di passaggio e delle scorrerie dei pirati berbereschi, il duomo normanno, nell’arco di un secolo circa – dal 1497 al 1590 – veniva ampliato ben tre volte. E grazie alla munificenza di privati cittadini, appartenenti in genere alla burocrazia militare e civile, come il cavaliere e capitano di giustizia Giulio Alazaro, i nobili Pietro di Anello e Antonio La Liotta, o di confraternite laiche delle maestranze che costituivano il ceto medio in ascesa sociale, la Chiesa Madre si arricchiva delle sculture dei Gagini, Berrettaro, Mancino, Di Battista.

Ma il dono più prezioso si deve al marsalese Mons. Antonio Lombardo, allora arcivescovo di Messina, il quale nel 1589 volle arricchire la chiesa, in cui era stato arciprete, della magnifica serie di otto arazzi fiamminghi raffiguranti episodi della guerra romano-giudaica che oggi sono conservati nei locali del Museo degli Arazzi adiacenti alla Madrice, ma che un tempo ornavano la zona presbiterale.

A maggior gloria propria e della Chiesa di Marsala egli, poi, si faceva raffigurare, orante, nel dipinto La presentazione al tempio commissionato al messinese Antonello Riccio, su copia dell’originale di Girolamo Alibrandi. Questo veniva collocato nella cappella del transetto destro, dedicata alla Madonna, dove lo stesso Lombardo riposa in un sarcofago a vasca di stile michelangiolesco.

In occasione del primo ampliamento, nel 1497, furono costruiti un cappellone e due cappelle laterali, di cui una dedicata al culto del SS. Sacramento e concessa in patronato ai Ministrali, una confraternita laica di fabbri, sarti, calzolai e falegnami. Questi, con un atto notarile del 1511, si impegnavano a provvedere a proprie spese alla messa quotidiana alle quattro del mattino e ad ornare la cappella con un tabernacolo in argento e con una grande icona marmorea, da completare entro il termine di quindici anni, pena la decadenza del patronato.

L’esecuzione di tale pregevole opera scultorea fu affidata in un primo tempo alla bottega palermitana di Bartolomeo Berrettaro e Giuliano Mancino; quindi scioltasi la società tra i due maestri, i procuratori rinnovarono l’impegno con il Berrettaro ed il fratello Antonino. Ma, morto Bartolomeo Berrettaro e trascorsi diversi anni senza che l’impegno assunto fosse condotto a buon fine dal fratello di questi, ci si decise infine ad affidare l’opera al famoso marmoraro Antonello Gagini, che la completò, con la collaborazione del figlio Giandomenico, nel 1532. Tale data era documentata da un’iscrizione, ora perduta, posta sulla base sinistra del pilastro dell’icona: "Quista opera è facta per il ministrali a tempu di re Carlu imperaturi, sendu procuraturi mastru Antuninu Munninu e mastru Joanni Mezzapelli, e scolpita per manu di Antoni di Gagini. An. Dom. M.D. 32,5 maii".

Altri restauri ed ingrandimenti furono eseguiti tra il 1542 ed il 1550, probabilmente per riparare ai danni subiti dal monumento durante la permanenza in città di contingenti spagnoli reduci dalla guerra contro i Turchi. Sembra che il tetto ligneo della navata centrale sia stato scoperchiato dai soldati nel 1519, come documentava un distico inciso in una trave, letto e trascritto dal Pirri.

Alcuni documenti storici, trascritti nel Libro Rosso, ci parlano della grande povertà della città che, in quegli anni, a parziale risarcimento delle malversazioni dei soldati spagnoli, veniva esentata dalle tasse. Un verbale del consiglio civico documenta la decisione di devolvere le decime, che i maestri della fiera riscuotevano dalla stadera, ai sacerdoti, in modo che questi si potessero dedicare con tranquillità agli uffici divini "imperochè la Matri Ecclesia di questa cità è multo povera e per la povertà che teni ditta matri ecclesia li poviri sacerdoti non possono vacari in diri et celebrari lo officio divino….".

La Chiesa, tuttavia, cominciava ad apparire inadeguata sia alle esigenze dell’accresciuta popolazione, sia ai dettami del Concilio Tridentino che prevedeva una più razionale sistemazione delle strutture interne affinché fossero ben distinti spazi e ruoli dei fedeli e del clero officiante.

Così, nonostante ancora nel 1590 l’abside venisse prolungata per sistemarvi in fondo il coro e lasciare libera la navata per i fedeli, presto ci si rese conto che era necessaria una soluzione definitiva, più consona alle mutate esigenze dei tempi.

Nel 1607 il Consiglio Comunale, presieduto dal capitano di giustizia Stefano Frisella, deliberava "di riedificare la Chiesa Matrice. Essa è opera necessarissima, essendo la presente malamente situata, storta, antichissima e caducata, bassa, oscura, angusta et incapace, essendo fabbricata di pietra e terra e sostentata di piccole colonne rotte…. e perché anco il popolo nelli giorni solenni et festivi non ha ingresso in quelle…..". Trascorsero tuttavia undici anni prima che avvenisse la positura della prima pietra, probabilmente a causa della penuria di fondi comunali, impiegati, in quel volgere di anni, in altre opere pubbliche come l’acquedotto da Rakalia a Sultana e la costruzione della Chiesa della Madonna della Cava. Ma già la Chiesa Madre era ridotta in uno stato di degrado tale da non consentire più di officiarvi il culto, per cui tutte le attività parrocchiali furono trasferite nella Chiesa del Salvatore.

Il problema della riedificazione della chiesa era sentito da tutta la cittadinanza, anche dai ceti più umili, del resto già presenti nel duomo normanno sotto forma di confraternita cui veniva affidata la cura e il decoro di alcune cappelle. Da un verbale del consiglio comunale del 1629 apprendiamo che alcuni cittadini, artigiani ed operai, si obbligarono spontaneamente a versare, per un periodo di dieci anni, un contributo annuo di tre tarì.

Infine nel 1656, in occasione della solennità del Corpus Domini, la Chiesa Madre veniva riaperta al culto, essendo state ultimate la zona absidale ed il transetto con le sue cappelle. Mentre si provvedeva le strutture interne, navate e cappelle, grazie ai contributi comunali venivano acquistati arredi sacri ed opere d’arte: la tela di Leonardo Milazzo raffigurante il martirio di San Tommaso Becket, che veniva collocata in fondo all’abside; l’organo di Andronico; un coro in legno intarsiato; grandi statue in stucco che venivano addossate ai piloni portanti del presbiterio.

Altre pregevoli stucchi, attribuibili probabilmente ai Li Volsi o al Messina, ornarono la cappella del SS. Sacramento, turbando tuttavia, come nota Gioacchino Di Marzo, l’equilibrio compositivo dell’icona gaginesca. I lavori di completamento andarono a rilento a causa della difficile situazione economica in cui versava la città, piagata da carestia ed epidemie, in parte devastata da un terremoto nel 1641 e da due esplosioni della polveriera. Se le strutture principali della facciata furono portate a termine tra il 1670 ed il 1684, come attestano le date incise nelle scale a chiocciola interne al prospetto, e se la presa di possesso capitolare avvenne nel 1692, come tramanda il Mongitore nelle sue Aggiunte alla Sicilia Sacra del Pirri, sappiamo per certo che ancora nel 1709 l’arciprete Carlo Francesco Omodeo lamentava al viceré Carlo Spinola il mancato completamento della volta centrale, delle vetrate e del pavimento.

Soltanto nel 1717, con fondi dell’arciprete Rocco Rubino e oblazioni dei fedeli, la Matrice poteva dirsi completata, almeno all’interno. La volta centrale era stata eseguita su progetto dell’architetto trapanese Giovanni Biagio Amico, mentre il prospetto inferiore, nel suo composito linguaggio architettonico, sembra attribuibile al disegno di Angelo Italia.

Il monumento si inseriva armoniosamente nel contesto architettonico che si andava sviluppando nel cuore della città bastionata tra la fine del XVII ed il XVIII secolo. Esso occupava, con il prospetto principale, tutto il lato lungo della piazza Loggia, così detta dalle attività di mercato e di cambio che pisani e genovesi vi svolgevano in epoca medioevale. Alla sua destra sorgeva il Palazzo dei Giurati – odierno Palazzo VII Aprile – iniziato nel XVI secolo ma completato tra il 1726 ed il 1756; a sinistra la Chiesa di San Giuseppe, risalente, nel suo primo impianto, alla fine del XVII secolo. Alle spalle della zona absidale, nei primi del ‘700, veniva elevata la Chiesa del Purgatorio che, con il suo prospetto a colonne tortili e la prospiciente fontana a volute e conchiglie, amplificava il tono barocco del complesso architettonico.

A tale fioritura di edilizia religiosa controriformista e barocca faceva riscontro un maggiore fervore nelle opere pie e di culto. Il nobile Girolamo La Liotta, alla cui famiglia spettava il patronato della cappella della Madonna del Soccorso, a destra dell’altare maggiore, rimasto vedovo, si dedicò interamente alla Chiesa e pensò di istituire un collegio di dodici sacerdoti che collaborassero con l’Arciprete. Morto nel 1599, come si legge nella pietra tombale murata dinanzi all’altare, donava alla cappella una cospicua rendita annua per l’istituzione della collegiata, che però, dopo varie vicissitudini, veniva eretta soltanto nel 1692 con bolla di Innocenzo XII.

Tra il XVI ed il XVII secolo si costituivano inoltre numerose confraternite, rette da vari ceti e maestranze, alle quali veniva affidata la cura delle cappelle e gli atti di culto che in esse venivano celebrati. Oltre alla più antica "delle quattro maestranze", quella cioè dei sarti, falegnami, fabbri e calzolai, ai quali spettava il patronato della cappella del SS. Sacramento, probabilmente sin dal XV secolo, con la ripresa sociale ed economica seguita alla battaglia di Lepanto e con il rinnovato clima di fervore religioso ispirato dalla Controriforma, andarono fiorendo altre confraternite.

Si ricordano la confraternita degli agricoltori che curarono il culto della cappella del SS. Crocefisso dal 1686; quella dei bottai, patroni della cappella dedicata ai SS. Simone e Giuda ritratti, nel quadro che orna la parete principale, in aperta campagna con, sullo sfondo, due bottai intenti al proprio lavoro; quella dei muratori cui spettava la cura della cappella dei "quattro Santi Incoronati", dove, nella pietra tombale di alcuni confratelli, posta al pavimento, sono scolpiti gli arnesi del mestiere; quella dei "massari", uomini di fatica che svolgevano il proprio lavoro soprattutto nelle chiese, che curavano la cappella dedicata a S. Cristoforo; quella dei pescatori dediti alla cappella della Madonna della Provvidenza, dove si svolgeva, per tradizione, la novena di Natale.

Notizie sulla formazione di tali confraternite, oltre che sulla composizione del clero, le sue prebende, e su come veniva officiato il culto, si traggono dalle Sacrae visitationes, relazioni redatte periodicamente dal Vescovo sullo stato della diocesi e delle varie chiese, in epoca successiva al Concilio di Trento.

Le vicende costruttive del monumento non si sono mai arrestate: esso ha continuato a crescere e a mutare nel tempo, quasi come un essere vivente. Sia l’interno che l’esterno hanno subito rifacimenti durante gli ultimi due secoli. Il composito aspetto dell’interno si deve in parte al gusto dell’arciprete Giovanni Morana, il quale, seguendo la moda del tempo, nel 1821 faceva stuccare ed imbiancare cornici, paraste, archi e capitelli che nell’originario impianto barocco erano in pietra arenaria. In occasione di restauri seguiti al crollo della cupola del 1893, piloni ed archi furono rifatti in mattoni, le cornici con pietre a faccia vista. Poi, durante i recenti restauri degli anni ’60, fu riportato a pietra da taglio anche il cornicione interno.

Tra il 1824 ed il 1827 veniva eretta la cupola, secondo il progetto del marsalese P. Russo, la cui esperienza e senso artistico sembra non fossero confortati da solidi studi tecnici. La costruzione della cupola fu infatti intrapresa senza le necessarie opere di consolidamento delle strutture portanti, come documenta un polemico carteggio tra amministratori comunali e autorità ecclesiastiche. Nonostante le difficoltà economiche cui si dovette far fronte, venendo a mancare anche il contributo del Comune, nel 1827 la cupola era completata. Già l’anno seguente, in seguito ad alcune scosse di terremoto, se ne rilevava la fragilità.

A causa delle lesioni alle pareti dell’abside e del crollo di una delle grandi statue in stucco dei Santi evangelisti addossate ai piloni portanti, l’arciprete Biagio Alagna nel 1855 richiedeva la consulenza di alcuni periti. La relazione dell’ingegnere D. Francesco Damiani rilevò la gravità della situazione: i piloni di sostegno della cupola avevano subito un progressivo affondamento a causa del peso eccessivo che sopportavano; uno di essi presentava delle lesioni. Si consigliava quindi di procedere al puntellamento delle strutture e di chiudere la chiesa al culto. Non venne preso alcun provvedimento. E tuttavia si comprendeva bene la gravità della situazione se nel 1892 si richiedeva una nuova perizia all’ingegnere Giuseppe Damiani Almeyda. Questi confermava che il peso sostenuto dai piloni portanti era eccessivo e rilevava che le fondazioni della zona absidale erano poco sicure a causa delle particolari condizioni del sottosuolo, pieno di cavità. I restauri proposti nella relazione non vennero eseguiti, probabilmente per mancanza di fondi in un periodo storico che vedeva la confisca dei beni ecclesiastici e la chiusura di istituti religiosi. Il culto venne trasferito nella vicina Chiesa del Collegio dei Gesuiti.

Il 9 febbraio del 1893 crollava la cupola, insieme a tre piloni di sostegno, tre colonne della navata centrale, circa un terzo della copertura. Sotto le macerie si perdevano anche il prezioso organo di Andronico, il coro in noce intagliato, l’altare, il cancello in ferro battuto che chiudeva l’abside.

Mentre a spese dell’amministrazione comunale si provvedeva a puntellare le strutture ancora integre, l’arciprete Pietro Mezzapelle si fece promotore dell’istituzione di un comitato cittadino e di una commissione che avevano l’incarico di promuovere, sorvegliare ed amministrare le opere di restauro. Il progetto e la direzione dei lavori vennero affidati all’ingegnere Damiani Almeyda, con la collaborazione del collega Brigaglia e di Sebastiano Cammareri Scurti. Grazie ad una sottoscrizione cittadina si provvide ad affrontare le prime spese, ma venuti meno alcuni importanti sostegni economici, come quello del Comune, che solo in parte soddisfece gli impegni assunti, e il ricavato della vendita degli arazzi fiamminghi, che fu vietata dal Ministero della P.I., i lavori rimasero fermi per qualche tempo e soltanto per la generosità di alcuni privati si poterono saldare i debiti con la ditta appaltatrice.

Alla fine del 1902 i lavori venivano ripresi sotto la direzione dell’ingegnere Luigi De Grossi, il quale dimostrò competenza tecnica e buon senso e ridusse i lavori di ricostruzione a quelli indispensabili, tanto che la cupola non fu elevata e sui solidi piloni ed archi absidali in mattoni fu posta una provvisoria copertura lignea.

Finalmente il 30 aprile del 1903 la Madrice veniva riaperta al culto.

Altri lavori di restauro furono portati a termine nell’arco di un venticinquennio circa: fu completata la volta della navata centrale, le cappelle attigue all’altare maggiore, furono rifatti il pavimento, il coro, l’organo e l’altare in marmo del presbiterio.

Ma la chiesa non poteva dirsi ancora completata, mancando la cupola ed essendo il prospetto superiore ancora incompiuto, e del tutto inadeguato al decoro sobrio ed armonioso del resto della facciata.

A causa delle vicissitudini belliche, soltanto nel 1947 si riprese il progetto Damiani Almeyda per l’erezione della cupola.

Promotore dell’iniziativa e finanziatore dell’impresa fu monsignor Pasquale Lombardo, un marsalese emigrato negli Stati Uniti ancora in giovane età che aveva sempre tenuto caro nel cuore il ricordo della città natale e il desiderio di dare lustro alla sua Madrice. Al progetto iniziale furono apportate alcune modifiche per garantire maggiore solidità alle strutture, e furono utilizzati materiali resistenti, come il cemento armato, per il tamburo, leggeri, come pomice e cemento, per la doppia calotta della cupola. Allo scopo di ridurre il carico sostenuto dalle strutture furono inoltre aboliti i costoloni.

Nell’estate del ’51 la cupola poteva dirsi completa; fu ornata con un mosaico vetroso che tuttavia saltò, poche ore dopo la positura, per il calore dei raggi solari. Si ricorse allora ad una pitturazione in materiale plastico bituminoso che negli anni ’60 – 61 fu sostituito con l’attuale rivestimento in lamine di piombo, idoneo a proteggere la struttura in cemento armato dalle infiltrazioni piovane.

Anche per il restauro del prospetto venne incontro la munificenza di monsignor Lombardo.

Secondo il desiderio di questi, il progetto fu affidato all’architetto Pace, residente negli Stati Uniti, mentre fu scartato un vecchio disegno dell’architetto palermitano Ernesto Basile, proposto dal comitato cittadino che si occupava della realizzazione dell’opera. Superate le ultime difficoltà burocratiche e ritoccato il progetto del Pace per meglio adattarlo al seicentesco prospetto inferiore, i lavori furono portati a termine tra il ’55 ed il ’56.

Negli anni successivi, inoltre, grazie alla sollecitudine dell’arciprete Andrea Linares, il monumento ha subito importanti restauri, sia alle strutture che agli arredi, resi necessari sia dai danni recati dai bombardamenti del 1943, sia dalle scosse sismiche del 1968. Sono stati riparati i tetti, sostituite alcune colonne della navata centrale, restaurati altari, cancelli, tele e arredi tra cui il maestoso organo.

Grazie poi a lasciti di monsignor Lombardo, sono state anche riparate le pareti laterali esterne. Ancora all’inizio degli anni ottanta, nell’abside veniva collocato l’altare liturgico ed innalzato il pavimento.

Nuove sistemazioni della zona presbiteriale sono in atto o nei progetti: il cuore di pietra dell’antica Chiesa Madre, a buon titolo Gloria filiorum, come recita l’iscrizione sul grande arco che separa il presbiterio dalla navata centrale, continua a vivere e a pulsare.

Chiesa Madre

Imponente edificio storico dedicato a San Tommaso Becket.