Architettura
Chiesa Madre di Marsala
La Chiesa Madre di Marsala, costruita nel 1176, è dedicata a San Tommaso Becket. Affacciata su Piazza della Repubblica, è la più grande chiesa di Marsala.
Fulcro di cristianità e di arte, «maestosa e solenne» (Linares), la Chiesa Madre nel suo assetto attuale, assunto nel corso dei secoli, si esprime attraverso un linguaggio composito, fatto di stili diversi, di committenze e di gusti, di religiosità e devozione.
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di Lina Novara
Fulcro di cristianità e di arte, «maestosa e solenne» (Linares), la Chiesa Madre nel suo assetto attuale, assunto nel corso dei secoli, si esprime attraverso un linguaggio composito, fatto di stili diversi, di committenze e di gusti, di religiosità e devozione.
Insieme con la funzione primaria di luogo di culto ha assolto anche il compito di accogliere, nei suoi altari e nelle sue cappelle, dipinti, sculture e oggetti sacri, sia ad essa destinati, sia provenienti da chiese distrutte o sconsacrate, attraverso i quali è possibile tracciare dal XV secolo in poi, un profilo della cultura artistica siciliana.
Variamente documentata è la scultura dei secoli XV e XVI che vede protagonisti i Gagini, ai quali va il merito, assieme a Francesco Laurana, di avere introdotto nell’ambiente gotico-fiorito siciliano nuovi temi rinascimentali.
Sulle orme di Domenico, il capostipite, erano arrivati in Sicilia altri artisti del Nord d’Italia, tra cui Gabriele Di Battista, Bartolomeo Berrettaro, Giuliano Mancino, attratti dalla fortuna, commerciale della bottega gaginesca; in essa si erano formati Antonello, figlio di Domenico, e i suoi cinque figli Antonino, Vincenzo, Giacomo, Giandomenico e Fazio, con fare talvolta incerto, cercano di seguire lo stile classicistico-rinascimentale del padre.
Occupando con gli annessi locali parrocchiali un intero isolato, la Chiesa Madre si affaccia sulla piazza della Repubblica con un prospetto austero, dai conci di tufo in vista, e dallo schema compositivo simmetrico. La mancanza di notizie bibliografiche e d’archivio riguardanti la facciata non consente di individuarne con esattezza l’autore e le fasi costruttive.
E tuttavia le date 1670, 1671, 1672, 1680, 1682, 1683 incise sui vari livelli nelle due scale a chiocciola poste nel retroprospetto sembrano utili riferimenti a lavori eseguiti nella facciata in un arco di tempo che dal 1670 va al 1692, anno della presa di possesso capitolare. La data 1717 incisa sull’architrave del portone d’ingresso, sostituita nel 1959, potrebbe, inoltre, essere coeva della decorazione barocchetta del portale centrale.
Nell’impianto generale dell’ordine inferiore sono ravvisabili caratteri ancora manieristici e nuovi temi barocchi, riconducibili ai modi dell’architetto siciliano Angelo Italia il quale, pur non rinnegando la sua formazione classicistica, è attendo al linguaggio barocco del Guarini: le scansioni attraverso elementi aggettanti come colonne binate, gli alti plinti e robuste paraste, nonché l’accentuato sviluppo in orizzontale della facciata e l’inserimento di campanili laterali, sono connotati tipici dell’indirizzo barocco dell’architetto Italia, riscontrabili anche nelle chiese di San Francesco Saverio a Palermo e nella chiesa Madre di Palma di Montechiaro. Manieristici sono invece gli oculi rotondi, le nicchie, le alte paraste, i timpani centinati, il robusto fregio formato dal ripetuto uso di cornici marcapiano e di soprassesti, che divide il primo dal secondo ordine e si sviluppa anche sulle pareti laterali dell’edificio.
Differenze di disegno e di esecuzione distinguono il primo dal secondo ordine, rinnovato nel 1955 su progetto degli architetti Pace e Rizza: nel settore mediano, ai lati del finestrone, sono poste le statue dei santi Giovanni Battista e Tommaso Becket (a sinistra), Leone Magno e Gregorio Magno (a destra); nel timpano le insegne pontificie.
Tre portali, due laterali ancora manieristici con timpani centinati, ed uno mediano con decorazione barocchetta, immettono all’interno. Seguendo il percorso del visitatore varchiamo l’ingresso principale: si apre davanti a noi lo spazio della grande aula basilicale «ampia, alta e luminosa» (Linares), divisa in tre navate da due file di otto colonne monolitiche. Il susseguirsi ritmato di colonne e archi e lo sviluppo delle cornici ci inducono il nostro sguardo verso il fondo della navata mediana e guidano il nostro cammino verso il grande emiciclo absidale, punto focale dell’edificio. Si ripete così, con il ritmico fluire dello spazio sull’asse di cammino del fedele, l’univoco orientamento delle basiliche paleocristiane, mirato a dirigere esclusivamente all’altare, centro spirituale della chiesa. Davanti all’abside si ferma il nostro incedere e sotto l’ampia cupola, lo spazio domina virtualmente, prima di articolarsi nel presbiterio, nell’abside e nel transetto; qui si arrestano le navate affidando a quest’ultimo il compito di formare, raccordandosi con esse, uno schema planimetrico a croce; qui l’arco»trionfale» distingue la zona del presbiterio, riservata al clero, da tutto il restante spazio della chiesa destinato ai fedeli.
La luce filtra attraverso le aperture della navata centrale, delle cappelle e del tamburo della cupola, rendendo luminose tutte le parti della chiesa. Una volta a botte con lunette in corrispondenza delle finestre, progettata nel 1709 dell’architetto trapanese Giovanni Biagio Amico, copre la navata centrale, mentre le laterali hanno volte a crociera.
La cupola, posta nell’asse di incrocio tra la navata mediana e il transetto, è un’ampia calotta semisferica, impostata su di un alto tamburo ottagonale con loggiato esterno percorribile, a colonne e architravi. L’attuale fu realizzata negli anni 1947-51 su progetto dell’architetto palermitano Giuseppe Damiani Almeyda, dopo il crollo della precedente, ottocentesca, avvenuta nel 1893.
Il colore bianco che predomina all’interno è dovuto all’intervento di stuccatura, voluto nel 1821 da Don Giovanni Morana il quale ritenne opportuno imbiancare cornici, paraste, capitelli e archi che erano del colore naturale della pietra, per rendere omogeneo tutto l’interno, dato che pareti, volte e tompagni erano di colore bianco.
Dopo il crollo della cupola del 1893 che determinò anche la caduta di parti della volta e delle arcate, furono rifatti in mattoni i quattro piloni di sostegno e gli ultimi tre archi delle navate, mentre le parti mancanti della cornice marcapiano furono realizzate con pietra a vista. Nel restauro degli anni ‘60 anche il resto della cornice fu ripulito dallo stucco ottocentesco.
Lungo i muri perimetrali, per ciascun lato, si aprono sei cappelle chiuse da settecenteschi cancelli in ferro battuto ed un vano d’ingresso laterale (v. pianta); esse custodiscono numerose opere d’arte e soprattutto pregevoli esemplari della scultura rinascimentale in Sicilia.
I. Cappella del Battistero
E’ detta cappella del battistero per la presenza del fonte battisemale (sec. XVII), di marmo, sormontato da una custodia in legno di forma ottagonale con cupoletta (sec. XIX), eseguita da un intagliatore siciliano che usò per la decorazione motivi floreali, piatte lesene e festoni di gusto neoclassico. La tela, trasferita in sacrestia, dopo il recente restauro, per un’adeguata conservazione, raffigura il Battesimo di Cristo, ricalcando gli schemi classicistico-barocchi della pittura siciliana degli inizi del sec. XVIII. Della sua originaria collocazione resta visibile la cornice di stucco culminate nella figura di Dio Padre che accoglie i neobattezzati.
II. Cappella di San Cristoforo
La cappella dedicata al santo protettore dei viandanti fu retta dai «massari», cioè uomini di fatica, contadini, addetti alla pulizia delle chiese, e nel XVIII secolo fu decorata con stucchi. San Cristoforo è rappresentato nella tela (sec. XVII) posta sull’altare mentre reca sulle spalle il Bambino Gesù: la figura, di dimensioni monumentali, si ispira a modelli classicistico-barocchi. Il nome «E. Nahum», dipinto in basso nella parte destra del quadro, è riferibile ad un componente di una famiglia ebrea, residente a Marsala, convertitasi al cristianesimo.
Due tele settecentesche sono collocate sulle pareti: La liberazione di San Pietro (o di Gregorio di Marsala) dal carcere, e la decapitazione di San Paolo, collocabili nell’ambito della cultura barocca isolana, sensibile agli influssi romani. La cappella ospita inoltre sculture gaginesche: una Madonna Assunta, attribuita Antonino Gagini figlio di Antonello, due pennelli a rilievo ed una pietra tombale. La statua dell’Assunta, detta anche Madonna degli Angeli per la presenza di sei cherubini giubilanti, rappresentati nell’atto di sollevare Maria in cielo, ricalca, in maniera impacciata, i più raffinati modi di Antonello, espressi nell’Assunta del Duomo di Palermo; faceva parte di un’icona, oggi smembrata, commissionata da Giovanni Pietro Emanuele ed Antonio Gagini nel 1562, la quale probabilmente comprendeva anche il pannello raffigurante la Presentazione al tempio, murato nella parete sinistra. Qui lo scenario architettonico, che fa da sfondo all’episodio affollato di figure, non rispetta le regole prospettiche e gli effetti plastico-pittorici non sempre risultano efficaci.
Più pregevole tecnicamente e stilisticamente è l'altro pannello marmoreo murato sulla stessa parete, raffigurante la Morte della Vergine, attribuito ad Antonello Gagini. Maria, attorniata dai dodici apostoli e da due angeli, giace supina sul catafalco ricoperto da un drappo sul quale è scolpito San Michele nell'atto di colpire con la spada un personaggio inginocchiato davanti a lui, forse il demonio. Finemente eseguiti sono i volti, le vesti, le pieghe tra le quali la luce si insinua creando vibranti modulazioni chiaroscurali.
Nella parete destra si trova inoltre la pietra tombale della nobildonna Barbara Grifeo, defunta nel 1552, proveniente dalla chiesa del Carmine, decorata con motivi zoofloreali e grottesche di gusto tardo-rinascimentale. Al centro, dentro una plastica ghirlanda di fiori e frutta, è inserito lo stemma nobiliare dei Grifeo con il grifo. Di buona fattura, può essere attribuito ad una delle botteghe gaginesche.
III. Cappella di Santa Rosalia
Nella tela che orna l’altare è rappresentata la Santa titolare della cappella, inginocchiata davanti ad un crocefisso, mentre scrive sulle pareti della grotta le parole che un angelo le detta. Il dipinto (1656), stilisticamente rispondente al gusto classicistico-barocco diffuso in Sicilia nella seconda metà XVII secolo, è inserito in una sottile cornice dorata, circondata da stucchi. Sull’altare è posta una scultura marmorea raffigurante la cosiddetta Madonna della grotta, proveniente dalla chiesa omonima, opera di Gabriele Di Battista e Giacomo Di Benedetto, ai quali fu commissionata dal marsalese Paolo Zuffato nel 1490.
Maria è rappresentata in piedi con in braccio Gesù che le offre un frutto, mentre un bambino impaurito con le gambe divaricate sembra chiederle protezione addossandosi a lei; lo sguardo della Vergine vago, severo, quasi allucinato, non rivolto al figlio, il corpo rigidamente segnato dalle pieghe, le mani dalle dita oltremodo affusolate che si attaccano senza plasticità al braccio, rendono l'opera bloccata e rigida nel suo schematismo costruttivo e mostrano una tecnica incerta nella resa degli effetti plastico-pittorici. La statua poggia su di una predella che, seguendo la tradizione rinascimentale, reca a rilievo un episodio riguardante il personaggio rappresentato, in questo caso la Natività (al centro) tra Maria e l'arcangelo Gabriele (dentro cornici ellittiche).
Sui lati più interni, a destra, emerge un demonio al quale fa riscontro, a sinistra, una testa d'angelo. La cappella accoglie anche i sarcofagi di Bernardo Requesens o Ricosens (a destra) e di Antonio Grignano (a sinistra) entrambi provenienti dalla chiesa del Carmine. Il primo, del 1539, ha una caratteristica copertura a tronco di piramide recante le iniziali I.H.S. (Iesus Hominum SaIvator) dentro un medaglione di foglie dal quale partono motivi a volute e fitomorfi, tratti dal repertorio classico; ai lati della cassa sono scolpiti due stemmi della famiglia, inquartati, con tre torri per lato. L'opera di bottega gaginesca, datata 1539, rispecchia il gusto classicistico-rinascimentale presente nella scultura siciliana della prima metà del XVI secolo. Il sarcofago di sinistra che accoglie le spoglie di Antonio Grignano, morto nel 1475, è opera pregevolissima di Domenico Gagini il quale raffigurò il defunto, secondo l'uso rinascimentale introdotto in Sicilia proprio da lui, dormiente, con le braccia incrociate sul petto, disteso sul coperchio qui ricoperto da una ricca coltre. I guanti di ferro che ricoprono le mani e la spada sono simboli dell'attività bellica del personaggio, che era stato insignito del titolo di barone da re Alfonso il Magnanimo per essersi distinto nella battaglia di Gerbia contro i Turchi. Il piccolo cane posto ai piedi è invece simbolo di fedeltà coniugale. Sulla fronte del sarcofago il Gagini eseguì a rilievo una Morte della Vergine, il cui corpo giace disteso su di un catafalco attorniato dagli apostoli, mentre in alto Dio Padre accoglie la sua anima; ai lati della scena, delimitate da fasce motivi floreali, le armi di famiglia. Il modellato elegante ed aggraziato con curve armoniche, il vibrante pittoricismo creato luce che scivola dolcemente e gradualmente piani, la qualità tecnica inducono a definire quest'opera uno dei migliori manufatti della bottega siciliana di Domenico Gagini. Nell'altare è stato di recente sistemato un pregevole paliotto ligneo sul quale è dipinta Natività su di uno sfondo paesaggistico con ponte ed architettura in rovina, che trova evidenti scontri nei dipinti napoletani e romani del '700 soprattutto nei presepi partenopei.
IV. Ingresso laterale destro
Le pareti laterali del vano, che a metà navata, tramite un portale, immette nella piazza Milazzo Maggio, ospitano due lastre tombali o pseudo-sarcofagi simili, provenienti dalla chiesa del Carmine. Quella di destra appartiene al carmelitano marsalese Ludovico Petrulla, filosofo e teologo, morto nel 1504, come recita l'iscrizione incisa sul finto coperchio trapezioidale e posta tra due medaglioni recanti, a rilievo, l'Annunciazione (a destra) e l'Agnus Dei (a sinistra); manufatto di bottega gaginesca, può essere attribuito ad Andrea Mancino per l'evidente tendenza alla geometrizzazione e alla rigidità delle forme. Virtuosistica e singolare è la disposizione del corpo disteso come su di un letto e reso in maniera tridimensionale, a rilievo bassissimo verso l'interno, più alto verso l'esterno. Stemmi della famiglia Petrulla e motivi ornamentali rinascimentali arricchiscono la decorazione del finto sarcofago. La lastra di sinistra, riferentesi a padre Filippo Maria, procuratore generale dell'ordine dei Carmelitani, morto nel 1612, fu modellata in modo evidente sulla prima, anche se a circa un secolo di distanza, con la variante dello stemma di famiglia ripetuto ai lati dell'iscrizione posta sul coperchio. Nello stesso vano si può ammirare un'acquasantiera "Facta 1543", opera di bottega gaginesca, attribuita a Giacomo Gagini.
V. Cappella di San Mattia
La cappella è appartenuta ad una famiglia di origine modenese, comunemente nota con il cognome Salazar, ma più volte citata in documenti come Alazaro e De Lazaro, ma verosimilmente Lazara (Lazzara) o Lazari, giunta in Sicilia con un capitano di Alfonso il Magnanimo, il cui figlio Matteo ebbe la castellania di Marsala (1443): i due stemmi - tre stelle su onde increspate - murati ai lati dell'altare ne attestano l'appartenenza.
Le tre tele poste nella cappella sono pregevoli opere del XVIII secolo: di artista ignoto quella sull'altare, raffigurante San Mattia in piedi, su di una roccia, nell'atto di evangelizzare, ha un impianto compositivo classicistico-barocco con reminiscenze tardo-manieristiche. Le due tele appese alle pareti, raffiguranti La strage degli innocenti (a destra) a La deposizione (a sinistra), provengono dalla locale chiesa di S. Antonio Abate e sono opere del pittore trapanese Domenico La Bruna che in questi lavori giovanili si mostra ancora legato a modi tardo-manieristici, sia nella resa degli elementi architettonici che delle figure; entrambi i quadri sono collocati entro ricche cornici dorate e intagliate. La cappella accoglie inoltre due opere scultoree di Antonino Gagini, commissionate dal capitano di giustizia Giulio Alazaro: un gruppo marmoreo raffigurante la Madonna dell'Itria (1564) ed il sarcofago dello stesso Alazaro, consegnato nel 1566.
La Madonna e il bambino, in posizione frontale, su di un cassone portato a spalla da due calogeri, hanno un modellato duro e stentato ed un impianto arcaizzante. Lo scultore si rivela impacciato nella tecnica e nella resa espressiva dei personaggi, ben lontano dai modi raffinati del padre Antonello, ma forse volutamente ha dai volti un aspetto arcaizzante, volendo rispettare l'iconografia usuale della Madonna che offre la sua guida ai fedeli (Odigitria, da cui dell'Itria) derivante da un prototipo bizantino, il cui culto si era diffuso a Costantinopoli fin dal V sec. Maggiore plasticità e scioltezza si nota invece panneggio e nella posa delle due figure che sostengono la cassa dalla quale emerge la Madonna con il Bambino: essi rappresentano due eremiti i quali, secondo una leggenda molto accreditata, avrebbero trovato in mare la cassa contenente il simulacro della Madonna, che i Cristiani avevano voluto sottrarre alla profanazione dei Musulmani, gettandolo in mare. Incerte risultano le origini del culto a Marsala: secondo una ipotesi sarebbero stati i Santi Gregorio, vescovo di Marsala, e Demetrio, assieme ad un calogero, a portare dalla Calcedonia una copia dell'immagine che fu poi riprodotta (sec. VIII), ad affresco, le pareti della grotta, tuttora esistente sotto la chiesa dell'Itria. Secondo un'altra ipotesi fu il vescovo Pascasino (sec. V) ad introdurre a Marsala tale culto.
Il Gagini affina i suoi modi, pur rimanendo freddo e convenzionale nelle rese pittoriche e linearistiche, nel ritrarre il capitano Giulio Alazaro sul sarcofago, per la cui esecuzione si avvalse della collaborazione di Domenico Panaya o Panaggia. Il defunto viene rappresentato in una posa inconsueta nella iconografia tradizionale vuole le figura distesa rigidamente sul coperchio: qui il capitano è ritratto adagiato sul fianco sinistro, con le gambe incrociate, mentre tiene la mano sinistra sotto il capo poggiato sul guanciale, e la destra sulle pagine di un libro aperto, forse il Vangelo. La fronte del sarcofago ospita un epitaffio posto tra due stemmi accartocciati, inseriti entro raffinate ghirlande di frutti e foglie, delle famiglie Alazaro (tre stelle su onde increspate, a sinistra) e San Clemente (una campana, a destra), alla quale apparteneva la moglie Brigida. Due sfingi alate sollevano da terra il sarcofago.
Di recente collocazione nella cappella e' il paliotto in marmi "mischi" siciliani (sec. XVIII), bianchi e rossi, recante al centro il monogramma I.H.S. (Iesus Homìnum Salvator) tra gli stemmi di monsignor Graffeo, vescovo di Mazara.
VI. Cappella della Sacra Famiglia
La cappella, decorata con stucchi di gusto classicheggiante, fu abbellita nei primi del XVIII secolo per volontà dell'arciprete Rocco Rubino e del fratello Antonino: una lapide, posta nel pavimento della navata antistante la cappella, ricorda il luogo della sepoltura del prelato. Sull'altare, realizzato in legno e vetri dipinti da un artigiano locale del XIX secolo, è una tela raffigurante la Sacra Famiglia (sec. XVIII), stilisticamente riferibile al gusto barocco, specialmente per la disposizione delle figure attorno ai tre personaggi principali.
VII. Cappella del Crocefisso
Un altare settecentesco di gusto tardo barocco, rivestito da pregiati marmi siciliani, ospita un Crocefisso ligneo del sec. XY opera documentata dello scultore marsalese De Crescenzio (1492).
Il simulacro del Cristo, che nel corso dei secoli ha subito delle ridipinture, risponde alla tipologia diffusa in Sicilia nel '400: stilizzato, anatomicamente segnato nella cassa toracica e applicato su di una croce dagli estremi polilobati. Le pareti sono decorate con stucchi settecenteschi. Sopra l'altare è inoltre posta una statua dell'Addolorata in legno, tela e colla, tipica tecnica dell'artigianato trapanese del XVIII secolo. Da sotto l'intonaco bianco delle pareti affiorano sbiaditi resti di affreschi settecentesca chi nei quali sono individuabili (sulla parete destra) una Discesa dalla croce ed una Deposizione, riferibili allo stesso periodo dei lavori fatti eseguire nella cappella da Giuseppe Pipitone nel 1720, come indica un'epigrafe dipinta sulla parete sinistra (in basso). Lo stesso nome, affiancato dal cognome Vinci, si ritrova inciso sui marmi dell'altare (in basso): IOSEF PIPITONE ET VINCI F.F.
VIII. Transetto destro
L'ala destra del transetto accoglie pregevoli opere: un quadro raffigurante La Purificazione di Antonello Riccio, una Madonna con Bambino di Domenico Gagini ed il monumento sepolcrale di mons. Antonio Lombardo. La tela, firmata e datata in un cartiglio posto sul gradino, a sinistra (ANTONELLO RICCIO MESSINENSIS PINGEBAT 1593), è una copia manieristica della Purificazione di Girolamo Alibrandi, conservata al Museo Regionale di Messina; fu donata alla chiesa Madre di Marsala da mons. Antonio Lombardo, ritratto in basso, nell'angolo sinistro, benefattore anche di otto preziosi arazzi fiamminghi del sec. XVI, conservati nel Museo attiguo alla chiesa. Le sue spoglie riposano nel sarcofago marmoreo a vasca, tardo-manieristico, posto alla destra dell'altare.
L'opera fu eseguita su un probabile disegno di Jacopo Del Duca di Cefalù, collaboratore di Michelangelo in Santa Maria degli Angeli a Roma, che in quegli anni risiedeva e operava a Messina, città della quale il Lombardo era vescovo. Sulla parete un busto ed una lapide, posti al di sopra del sarcofago, ricordano l'effigie e le cariche ricoperte dall'illustre marsalese, morto a Messina l'11 settembre 1595 e qui sepolto. Sull'altare ligneo è una Madonna con Bambino, detta del Popolo, attribuita a Domenico Gagini, proveniente dalla chiesa del Carmine realizzata per quella chiesa nel 1490. La perizia tecnica con cui è trattato il modellato, la regolarità dei piani, l'eleganza della posa, la ponderazione indietreggiante e la dolcezza dello sguardo con cui il Bambino guarda la madre sono connotati tipici di Domenico Gagini e temi ricorrenti in altre sue Madonne con Bambino, tra le quali quella di Salemi che ha, fra l’altro, la stessa fossetta sul mento.
IX. Cappella della Madonna del Soccorso
La cappella appartenne alla famiglia La Liotta che qui pose le spoglie di tre componenti: Antonio, nel sarcofago addossato alla parete destra, morto nel 1512; Girolamo, fondatore della collegiata, morto nel 1599, sotto la pietra tombale al centro del pavimento; e una discendente di Antonio, nel sarcofago manieristico (1600) della parete sinistra. Il sarcofago di Antonio La Liotta reca la figura del defunto giacente sul coperchio e sei busti muliebri, plasticamente resi, su tre lati della cassa, simboleggianti la Fede, la Giustizia, la Temperanza, la Prudenza, la Fortezza e la Pietà, emergenti da corone di foglie, fiori e frutti: due stemmi a scudo della famiglia sono posti agli angoli della cassa. L'opera, pregevole, anche se non priva di talune incertezze soprattutto nella resa delle pieghe e del corpo del defunto, viene comunemente attribuita a Giuliano Mancino che si sarebbe avvalso della collaborazione del suo socio Bartolomeo Berrettaro. Sull'altare è posta la Madonna detta del Soccorso (primi del sec. XVI), o anche del/a Mazza per la presenza, nella mano sinistra, di una dava argentata che Maria solleva, secondo l'iconografia tradizionale, per difendere il bambino ignudo e pauroso che le sta addossato, in basso, simboleggiante l'intera umanità.
La statua ha più un valore devozionale che artistico e, per talune evidenti durezze, può essere inserita tra i modesti manufatti di quegli scultori operanti in Sicilia nel XVI secolo, sulla scia dei Gagini, ma meno esperti di essi, sia tecnicamente che stilisticamente, come ad esempio Giuliano Mancino, il quale agli inizi dello stesso secolo lavorava per la famiglia La Liotta, committente della statua: il loro stemma si ritrova infatti ripetuto ai lati della predella, al centro quale è una Resurrezione di Cristo. Sulle pareti della cappella sono due dipinti con pregevoli cornici dorate: a destra la tela raffigurante Sant’Antonio Abate (in piedi) e Pascasino (inginocchiato) dinanzi la Trinità (sec. XVII.), rispondenti, nella composizione, alla tipologia rocca di questo soggetto; a sinistra Sant'Antonio Abate con il Bambino Gesù in braccio (sec.XVII) dove si notano colori dalle tonalità pacate e panneggi svolazzanti, di gusto barocco.
X. Abside
Addossata al pilone destro dell'abside è la statua di San Vincenzo Ferreri (1554), già nella chiesa di San Domenico, poi in quella della Madonna della Cava, attribuita unanimemente a Giacomo Gagini, figlio di Antonello; austera nel suo manto a pieghe rigide e trattate in modo sommario, poggia su di un piedistallo poligonale sul quale sono effigiati a rilievo, componenti della famiglia committente (negli smussi: due donne inginocchiate, a destra; un uomo ammantato e un fanciullo inginocchiati nell'atto di leggere, ed inoltre uno stemma, a sinistra) ed episodi miracolosi relativi alla vita del Santo (da destra: una predicazione, il battesimo di un neonato, la supplica di due sposi per avere un bambino, una moltiplicazione di cibo).
La statua ha subito delle scheggiature ancora visibili nelle pieghe, nel bastone e nella mano destra, durante il bombardamento dell'l1 maggio 1943, quando si trovava nella chiesa della Madonna della Cava. Sul piedistallo si legge l'iscrizione: 1554 S. VINCENTIUS. Domina il grande vano absidale la tela raffigurante il Martirio di San Tommaso Becket (1656), opera di Leonardo Milazzo che forse si ispirò per lo sfondo architettonico al grande arco della Purificazione del Riccio, mentre fu coerente al gusto del suo tempo nella distribuzione su due piani delle figure: in alto gli angeli in tripudio, reggenti un cartiglio con la scritta LAETABITUR IUSTUS IN DOMINO, in basso il martirio del Santo che si accascia sotto i colpi di pugnale inflittigli dai feroci, muscolosi assassini. Il dipinto, che a motivi manieristici associa ricordi novelleschi, fu acquistato presso il pittore marsalese Milazzo il 24 ottobre 1656. E stato sottoposto a restauro nel 1985.
Sotto la tela si trova il grande organo, opera di Michele Polizzi di Modica, fatto costruire nel 1915 dall'arciprete Paolo Chiaramonte, al quale si deve anche l'altare di marmo (1929), opera dell'artigiano marsalese Michele Giacalone. Nel 1934 l'arciprete Calogero Cusumano fece ingrandire l'altare sopraelevandolo di un gradino e costruendo due corpi laterali. All'arciprete Andrea Linares si deve invece la realizzazione dell'altare liturgico (1981). Del secolo scorso è il monumentale corso ligneo con otto scanni per lato, decorato con motivi geometrici e fitomorfi di gusto neoclassico.
Un settecentesco Crocefisso, proveniente dalla chiesa di Santo Stefano, fa mostra di sé sull’altare maggiore; pure al XVIII secolo appartengono i due grandi candelieri in legno posti ai lati dell'altare. Alla statua di San Vincenzo fa riscontro, sul pilone sinistro, il simulacro marmoreo di San Tommaso, opera pregevolissima di Antonello Gagini (1516), che rappresenta il Santo con ampio mantello pieghettato, mentre con la mano sinistra tiene poggiato al petto il Vangelo, simbolo dell'adesione del Santo al messaggio di Cristo e reca nella sinistra una squadra, allusione alla mentalità positiva e critica di Tommaso.
Non meno pregevole è il rilievo del piedistallo, che rappresenta, in perfetta prospettiva, rimarcata dai cassettoni del soffitto, la scena dell'Incredulità di San Tommaso; ai lati scolpite, a rilievo, le figure inginocchiate dei committenti Pietro Anello e la moglie. In questa statua, improntata a quello stesso gusto classicistico-rinascimentale presente nel San Giacomo del Museo Regionale Pepoli di Trapani e nel San Tommaso del Duomo di Palermo, dello stesso autore, l'arte di Antonello raggiunge accenti lirici soprattutto nell'espressione del volto regolarissimo, nella composizione equilibrata, nella resa delle pieghe che con il loro moto creano efficaci effetti plastici e pittorici insieme.
XI. Cappella del Santissimo Sacramento
La cappella, retta fin dal XVI secolo dai confrati delle "Quattro Maestranze", falegnami, sarti, fabbri, calzolai, fu ornata per volontà di questi di una icona marmorea, oggi purtroppo mutila e manomessa durante il trascorrere dei secoli. Le varie vicende legate alla commissione e all'esecuzione dell'opera, le trasformazioni subite, non consentono oggi di riscontrare un linguaggio omogeneo e di individuare con esattezza le parti eseguite dalle singole personalità artistiche che vi lavorarono: Bartolomeo Berrettaro, Antonello e Giandomenico Gagini.
Nel 1518 infatti i confrati commissionarono una "custodia marmorea con arco" allo scultore Bartolomeo Berrettaro, al quale nel 1519 venne associato il fratello Antonino; sopraggiunta nel 1524 la morte di Bartolomeo, i lavori vennero affidati ad Antonello Gagini (c. 1525-27), il quale si avvalse della collaborazione del figlio Giandomenico e completò i lavori nel 1532, come indicato in una iscrizione non più esistente, posta nella predella.
Nel '600 l'altare fu trasformato e l'icona rivestita di stucchi; altri danni subì nel 1893 per il crollo della cupola. Allo stato attuale è murata nella parete di fondo della cappella, in posizione sopraelevata rispetto all'altare, mentre le quattro formelle con i Santi Eligio, Oliva, Giovanni Battista e l'arcangelo Gabriele sono collocate nelle pareti laterali dove si trovano fin dal XVII secolo. Al centro dell'icona è la formella con il Calice e l'Ostia, sovrastata da una Crocefissione delimitata dall'Annunciazione (ai lati) e Dio Padre (in alto); dodici formelle simmetricamente disposte ai lati della centrale rappresentano scene della Passione di Cristo - L'ultima cena, L'orto di Getsemani; Il bacio di Giuda, La flagellazione -, i quattro Evangelisti, i Santi Giuseppe e Crispino al lavoro nelle loro rispettive botteghe.
Nei due tondi posti in alto sotto il timpano di Daniele e Geremia; nella predella Cristo e i dici Apostoli (a mezzo busto). Si suggerisce un ordine di lettura secondo la numerazione di seguito indicata e riportata nello schema. Anche se disarmonie stilistiche, dovute all’avvicendarsi di più scultori nella realizza dell'opera, come l'accentuato linearismo del Berrettaro, la frettolosità di Antonello, la durezza di Giandomenico, non consentono di esprimere un giudizio omogeneo per l'intera icona, il manufatto risulta armonico nel suo complesso, elegante nella decorazione, pregevole per le inquadrature prospettiche e per taluni effetti pittorici.
Nell'altare, in marmi "mischi" siciliani (sec. XVIII), sono allogati due preziosi manufatti argentieri siciliani: il paliotto ed il tabernacolo. Il paliotto architettonico, datato 1766, fu offerto dalla Confraternita dei sarti, falegnami, calzolai, fabbri, i cui simboli sono raffigurati all'interno di due scudi, ed eseguito dall'argentiere trapanese Vincenzo Bonaiuto, sotto il consolato di Angelo Sandias, come dimostrano le sigle del Bonaiuto e del Sandias e il marchio della città di Trapani, impressi sull'argento. All'interno di tre arcate sono poste le figure della Fede, della Speranza e della Carità; sul prospetto, sostenuti da mensole, i quattro Evangelisti.
Un argentiere, forse palermitano, realizzò lo sportello del tabernacolo che, pur non avendo marchi visibili, può essere inserito tra i prodotti dell'argenteria palermitana del XVIII secolo la tipologia della composizione ricca di volute, foglie, fiori, spighe ed uva che si combinano liberamente e creano una cornice attorno al medaglione centrale recante una miniatura con il volto di Cristo. Alle pareti laterali della cappella due modeste tele settecentesche rievocano la celebrazione eucaristica: L'elevazione del calice (a destra) e L'elevazione dell'ostia (a sinistra): in entrambe la decorazione è affollata e vi è una predominanza di calde tonalità rossastre. Dal punto di vista stilistico vi si notano sia elementi classicheggianti che barocchi.
La cappella ospita inoltre due grandi candelieri in legno dorato (sec. XVII), decorati motivi floreali e grottesche, che presentano un'originale soluzione per il sostegno della candela: un putto che cavalca un'aquila tiene una cornucopia reggicandela.
XII. Transetto sinistro
Sull'altare dell'ala sinistra del transetto, al di sopra di una statua del Sacro Cuore (sec. XX), è posto un dipinto raffigurante i Santi Pietro e Paolo, in piedi, sovrastati da cherubini e dallo Spirito Santo, stilisticamente consono ai modi della pittura classico-barocca. Vi si trova inoltre il monumento funebre (1860) di mons. Isidoro Spanò, opera di Rossano Barbera; il corpo del prelato fu qui traslato dalla chiesa di San Giuseppe nel 1921, in occasione del primo centenario della consacrazione del Duomo, avvenuta per opera di mons. Spanò il 31 Agosto 1821, come ricorda una lapide.
XIII. Cappella della Santissima Trinità.
L'ultima cappella di sinistra, dedicata alla Trinità, accoglie sull'altare un pregevole dipinto degli inizi del secolo XVIII, che raffigura due Santi carmelitani inginocchiati davanti la Trinità, la cui impostazione ricalca gli schemi romano-napoletani del '700: le vesti sono vivacizzate dal movimento delle pieghe e le tinte vivaci. Di buona fattura sono anche le due tele poste sulle pareti laterali, provenienti dalla chiesa dei padri carmelitani (oggi sede della Biblioteca Comunale): a destra, Quattro carmelitani, due santi e due sante inginocchiate, dipinto tardo-seicentesco di gusto barocco, a sinistra, La Madonna con due santi carmelitani tra una gloria di angeli, opera barocca nell'impostazione con ricordi novelleschi nelle vesti, nelle mitre e nei pastorali dorati. Nel 1959 fu realizzato l'altare marmoreo opera di Michele Giacalone e dei suoi allievi, e nel 1960 lo scultore Luigi Santifaller di Ortisei eseguì la statua della Madonna del Carmelo.
XIV. Cappella della Madonna del Rosario
La cappella prende attualmente nome dal gruppo ligneo formato dalla Madonna e dai Santi Domenico e Caterina; la statua di Maria del XVIII secolo, proviene dalla distrutta chiesa di San Domenico, mentre quelle dei due Santi sono state rifatte nel 1970.
Prima che vi fosse trasferita la statua della Madonna del Rosario (c. 1943), la cappella era dedicata alla Pentecoste, come dimostra la tela con questo soggetto posta sull'altare (sec. XVII), dalla composizione simmetrica e affollata che, pur seguendo uno schema tardo-rinascimentale, denota modi barocchi nella cura delle vesti. L'altare in legno e vetro dipinto è un tipico prodotto di artigianato locale del secolo XIX. Sono qui inoltre ospitate due tavole dipinte (sec. XIX), di modesto valore artistico, raffiguranti i Santi Pascasino (a destra) e Gregorio (a sinistra), vescovi di Lilibeo, poste nell'abside fino al 1893, anno del crollo della cupola. I due angeli in marmo (1934) sono opera dello scultore Galleni di Viareggio e provengono dall'altare maggiore della chiesa.
XV. Cappella del Vescovo Pascasino
La cappella appartenente alla confraternita dei pescatori, a cura dei quali si svolgeva la novena di Natale, accoglieva in passato una piccola Madonna in gesso, detta della Provvidenza o anche del Buon Consiglio, molto venerata, alla quale era dedicata la stessa cappella; oggi una tela (sec. XIX), posta sulla parete destra, ne ricorda il culto.
Sull'altare in legno e vetri è posto un dipinto eseguito nel 1979 dal pittore Carlo Montarsolo, raffigurante il vescovo Pascasino, attuale titolare della cappella; in maniera schematica e con colori accesi, tra i quali predomina il rosso, il pittore ha raffigurato Pascasino, uomo di nobile e forte personalità, in adorazione, mentre nella parte bassa del quadro, ha dipinto tre importanti episodi della vita del vescovo di Lilibeo: l'incontro con papa Leone Magno, la presidenza del Concilio di Calcedonia, la cattura da parte dei Vandali. Pascasino (c. 390-455), infatti, che fu vescovo di Lilibeo all'incirca tra il 417 e il 440, fu molto stimato e ammirato da papa Leone per le sue alte qualità morali e spirituali, tanto da tenere in buona considerazione il suo parere sulla della Pasqua del 444, che il Papa voleva fosse celebrata nella stessa data sia nella Chiesa d'Occidente che in quella d'Oriente, e da affidai missione di mettere unità nel rito del battesimo e ordine nell'amministrazione dei beni della Chiesa siciliana.
Ma l'incarico più prestigioso che Pascasino ebbe dal Papa fu quello di presiedere, in tempi difficili, il Concilio di Calcedonia del 451, compito che accolse con grande dignità, saggezza e forza d'animo. Sappiamo che per due volte fu fatto prigioniero dai Vandali: nel 440, quando mentre era vescovo di Lilibeo, fu deportato in Africa dove subì pene e tormenti, e poi fu liberato per intercessione di papa Leone; nel 455, data in cui cadde di nuovo in mano dei Vandali e dalla quale non si hanno più notizie. Sembra valida l'ipotesi che sia morto di stenti durante la prigionia o martirizzato. Nella cappella, in una edicola sulla parete sinistra è posta una statua lignea di San Biagio (sec. XX).
XVI. Ingresso laterale sinistro
Come sul lato destro, anche sul lato sinistro, un vano immette all'esterno (su via Garibaldi) tramite un portale; qui si conserva una pregevole acquasantiera in marmo bianco di Carrara, attribuita a Domenico Gagini. La vasca polilobata è retta da una colonnina finemente decorata a rilievo da nastri obliqui guarniti da bugne e da cordoni orizzontali, di gusto plateresco. Reca la data di esecuzione 1474 e l'antico stemma di Marsala, raffigurante la Madonna della Grotta con la facciata dell'omonima chiesa. XVII. Cappella dei Quattro Santi incoronati I Quattro Santi Incoronati, Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, martiri sotto Diocleziano, sono il soggetto della tela che la confraternita dei murifabbri fece dipingere nel 1699 per l'altare della loro cappella, come attesta l'iscrizione inserita nel dipinto, tra le pagine del libro aperto: DEVOTIONE ET SUMPTU MAGISTRI FABRI MURARI COOPERANTE MAGISTRO NICOLAO LIGOTTI, CAPUT MAGISTRO ANTONIO SAMMARTANO ET VINCENTIO RALLO CONSULIBUS 7 NOVEMBRE 1699. I colori accesi e vibranti, la mobilità dei panneggi, la mossa composizione roteante attorno al vuoto della zona mediana caratterizzano il dipinto e permettono di ascriverlo tra le opere del gusto classicistico-barocco, diffusosi in Sicilia sul finire del XVII secolo. La cappella ospita inoltre una piccola tela raffigurante Le anime del Purgatorio e la Madonna fra due sante (fine sec. XVIII) e due statue nelle nicchie laterali: un Ecce Homo (a destra) in legno, tela e colla del secolo XIX, ed un più recente San Giuseppe ligneo (a sinistra). Al centro del pavimento è posta la pietra tombale dei primi rettori della confraternita, con gli strumenti del loro mestiere, realizzati a rilievo. Alla confraternita si deve inoltre la decorazione con stucchi e affreschi paesaggistici, realizzata nel secolo XVIII, e agli stessi murifabbri l'esecuzione degli stucchi. XVIII. Cappella dei Santi Simone e Giuda
La tela tardo-barocca posta sull'altare raffigura i Santi titolari della cappella Simone e Giuda (fine sec. XVIII), fra i quali (in basso) si inseriscono dei personaggi intenti a costruire una botte, chiara allusione all'attività dei bottai, custodi della cappella che viene anche detta della Madonna di Portosalvo, per la presenza di una linearistica Madonna lignea, dipinta, di gusto tardo-gotico (1593), protettrice dei naviganti, che si erge, col suo rigido linearismo costruttivo, sull'altare. Alla sua intercessione si deve, secondo la tradizione popolare, il salvataggio di una nave, durante una tempesta, come raffigurato nell'affresco della parete sinistra. Un navigante, forse Giovanni Cascio, al quale si riferisce la pietra tombale posta nel pavimento della cappella e datata 1829, in ringraziamento del miracoloso salvataggio, fece dipingere a tempera, nei primi dell'Ottocento, sui muri della cappella, a sinistra, l'episodio di cui era stato protagonista (La Madonna che salva una nave in pericolo), dipinto di carattere devozionale, e a destra, una Veduta del porto di Marsala, opera, quest'ultima, non priva di riferimenti alla vivace attività del porto e delle industrie enologiche in quel periodo.
Dalla iscrizione posta sulla pietra tombale si ricava inoltre la notizia di un legato per una messa quotidiana da celebrare in onore della Madonna e degli apostoli Simone e Giuda. Sul lato sinistro della cappella è collocata la statua di San Michele Arcangelo, del XVIII secolo, in parte ridipinta, che nell'impostazione rievoca modi cinquecenteschi. Alla parete destra è addossato il sarcofago di Giulia Ventimiglia, prima moglie di Girolamo Margio, morta in giovane età, proveniente dalla chiesa della Madonna della Cava, dove è ancora conservato il sarcofago del marito. Un documento del 1584 informa che Girolamo Margio, in data 15 maggio di quell'anno, commissionò a Giovanni Montelongo di Carrara, Vincenzo Calandra di Marsala e Giovanni De Lucchesi di Trapani, due sarcofagi uguali, uno per sé e uno per la moglie.
Non sappiamo però a quale delle due mogli si riferisca il contratto: se alla prima, Giulia, morta nel marzo 1580, o alla seconda, Elena, sposata nel dicembre del 1580. Resta il dubbio se uno dei due sarcofagi citati nel documento sia quello conservato in questa cappella. Lo scultore che l'eseguì si espresse, comunque, con linguaggio raffinato e perizia tecnica mostrandosi sensibile al gusto, ormai manieristico, della scuola gaginesca. Il sarcofago è in marmo bianco, decorato con semplici motivi ornamentali di tradizione classica e reca sulla fronte un epitaffio ai cui lati sono scolpiti due scudi ovali (femminili) decorati con sei margherite (stemma dei Margio) disposte nel verso della banda (stemma dei Ventimiglia).
Sul coperchio sono incise le iniziali I.H.S. (Iesus Hominum Salvator). XIX. Cappella di San Giovanni Nepomuceno La cappella dedicata al Santo Giovanni Nepomuceno, patrono di Praga e protettore dei confessori, martirizzato per aver mantenuto il segreto della confessione, fu decorata nel 1780 con stucchi di gusto barocchetto, per volontà dell'arciprete Pietro Rubino. La tela (sec. XVIII), di gusto barocco, rappresenta l'Apotesi del Santo che viene innalzato da una schiera di angeli verso la Vergine, mentre in basso, a destra, si svolge la scena del martirio. Sulle pareti due affreschi settecenteschi alludono alla confessione: a destra, una donna con un putto che tiene un dito sulle labbra, in segno di silenzio, e una lancia nella mano destra per sconfiggere il peccato, simboleggia Il segreto della confessione; a sinistra, una donna che allatta il suo bambino indica Il perdono del confessore.
Stilisticamente coerenti a schemi classicistico-barocchi, si vivacizzano per i colori cangianti e la mobilità dei panneggi. Sull'altare è la statua lignea di Sant'Eligio (sec. XVIII) dall'ampio e mosso panneggio, protettore dei fabbri e maniscalchi, ai quali era affidata la cura della cappella. Nella base della statua erano dipinti i nomi dei committenti, oggi illeggibili. Fronte interna Le porte di quercia che chiudono i tre ingressi della facciata furono realizzate nel 1956-57 dagli artigiani Vitale, Lombardo e Siracusa. Ai lati dell'ingresso principale due monumenti celebrativi ricordano monsignor Pasquale Lombardo (1887-1971), marsalese di nascita, americano di adozione, al quale si deve la riedificazione della cupola e il completamento del prospetto. Grata, la cittadinanza, a perenne ricordo, fece eseguire dallo scultore trapanese Domenico Li Muli un mezzobusto con bassorilievo disegnato dall'ingegnere Luigi Giustolisi.
Una lapide ricorda inoltre le missioni date al popolo nel 1950 e la visita a Marsala del cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, che, dal settembre 1949 allo stesso mese del 1950, fu amministratore apostolico della diocesi di Mazara. Accanto alla prima colonna di ogni fila è posta una robusta acquasantiera con ampia vasca, realizzata in marmo grigio sul finire del XVII secolo. Uffici parrocchiali Numerose altre opere sono conservate con libri sacri, documenti di archivio, mobili e suppellettili, negli uffici parrocchiali; tra i dipinti degni di attenzione sono una Adorazione dei magi (sec. XVIII) ed una Santa Cecilia (sec. XVIII); tra i: mobili va segnalato un originale cassettone di legno intagliato e scolpito di fine secolo XVI, dal formato insolito a due facce con quattro cassetti per lato. Vi sono scolpite figure di Sante: Barbara e Caterina d'Alessandria agli angoli della fronte, Lucia, Agata, Margherita e Orsola sulla fiancata destra, Rosalia, Cecilia, Orsola e Cristina su quella di sinistra. Nel vano di ingresso è murata una fontana tardo-settecentesca, di gusto barocchetto.